Ultimamente molti delitti dell'odio rosso stanno finalmente tornando alla luce.
Troppi furono i Sacerdoti trucidati. Ma spesso il pensiero corre all'Emilia ed al triangolo rosso; ma era un triangolo assai esteso,tant'è che il vertice inferiore toccò addirittura la Calabria, dove nel marzo 1945 ebbe vita una delle varie «repubbliche partigiane» che punteggiarono la Repubblica durante la guerra: dalla Val d'Ossola all'appennica Montefiorino. Esperimenti «democratici» che promettevano esiti popolari di libertà ed eguaglianza, ma non sempre seppero garantirli e anzi generarono talvolta frutti di violenta demagogia. Anche per la «repubblica rossa» di Caulonia, ad esempio, che ebbe brevi fasti nella Locride, si è parlato di «sommossa che, teoricamente sorta per rivendicare giustizia sociale, già in pochi giorni compì tante ingiustizie»...E un'unica vittima: un prete. «Solo un morto», telegrafò infatti Pasquale Cavallaro - leader delle rivolta calabrese - al guardasigilli Palmiro Togliatti, annunciandogli che un'«insurrezione come non mai in Calabria, con centro Caulonia, dopo superba manifestazione est fermata». Solo un morto, dunque: il sacrificio del quale probabilmente non è estraneo al fallimento dell'esperienza insurrezionale stessa, anche se le circostanze di quell'assassinio - la cui memoria è stata rinfrescata nel 2002 dall'attuale arcivescovo di Locri monsignor Giancarlo Bregantini e dal suo vicario Vincenzo Nadile, con la posa di una lapide sul luogo del delitto - sono tutt'altro che chiarite a tutt'oggi.
La vittima era Don Gennaro Amato: parroco sessantaduenne di Santa Maria dei Minniti nella borgata montana di Crochi, prete nient'affatto «fascista» e anzi molto vicino alle possibili istanze egualitarie delle «repubblica socialista». La quale nacque il 6 marzo 1945 da una rivolta popolare governata da Pasquale Cavallaro: una strana figura di ex disertore della Grande Guerra, uomo «di rispetto» locale, divenuto sindaco per acclamazione popolare nel gennaio 1944 e quindi «presidente» della repubblica rivoluzionaria, che tuttavia alla fine rischiò di sfuggirgli di mano. Guarda il caso (che si ripete anche in altre storie di preti uccisi dai partigiani): Cavallaro in gioventù, prima di emigrare in America e di fare per un po' il maestro a Caulonia, era stato seminarista, sotto la protezione del condiscepolo più anziano Gennaro Amato. Forse da questa antica conoscenza scaturì il crimine? Oppure dalla circostanza che don Gennaro, agli inizi del suo ministero, fu destinato proprio nel quartiere di San Nicola dove Cavallaro era boss incontrastato e da cui il religioso dovette chiedere di andarsene per le minacce ricevute? O ancora - ipotizzano le cronache - perché negli anni Trenta il sacerdote fu testimone a discarico nel processo contro un tale che aveva ucciso (per legittima difesa) il miglior amico di Cavallaro? Non per nulla, tra i primi atti della «repubblica di Caulonia» ci fu l'istituzione di un «tribunale popolare» per giudicare i reati del fascismo; e uno tra essi fu appunto quell'omicidio antico, che tanto stava a cuore a Cavallaro. Sembra di essere nel più profondo Ottocento, rinvangando queste cronache: tanto in esse si mescolano costumanze contadine, rivolte popolari e 'ndrangheta. Già, anche la mafia. Come ormai concordano molti studiosi, infatti, nella repubblica di Caulonia si registrò un'indulgenza comunista nei confronti della locale 'ndrangheta, considerata una forma di ribellione all'ordine costituito e dunque una potenziale alleata, soprattutto dal punto di vista della riforma agraria. «È certo - scrive uno storico a proposito dell'episodio resistenziale di Caulonia - che presero parte alla rivolta anche i mafiosi, ovvero i braccianti aderenti alle cosche locali. È altrettanto certo che la rivolta si nutrì di comportamenti e persino di rituali mafiosi». È il caso dell'omicidio di don Amato? Il fatto avviene alle 8 del mattino dell'8 marzo 1945: due giovani uomini armati si presentano in canonica, pare per convocare don Gennaro al «tribunale del popolo»; quella mattina, infatti, veniva giudicato il responsabile dell'omicidio di 10 anni prima, nel quale era morto l'amico di Cavallaro (per inciso: la corte «rossa» condannò l'uomo ad essere sepolto vivo e quest'ultimo, che era già stato costretto a scavarsi la fossa con pala e piccone, si salvò solo perché passava da quelle parti un carabiniere...). Forse il sacerdote si ribella alla convocazione, anche perché nei giorni precedenti il tribunale si era dimostrato degno dei peggiori episodi del terrore giacobino, con punizioni umilianti di piazza, giudizi senza appello, condanne sommarie; fatto sta che tra il prete e i "partigiani" nasce un contrasto e dal moschetto di uno dei due bravi parte il colpo che trapassa fegato e stomaco di Don Amato. Non è chiaro se il delitto sia stato ordinato, oppure se scaturì da semplice imperizia. In tribunale (che comunque alla fine delle due istanze nel 1958 riconobbe Pasquale Cavallaro detto «il professore» come mandante) i sostenitori della «repubblica» calabrese cercarono di negare ogni responsabilità politica; si tentò persino, in perfetta mentalità mafiosa, di simulare un «delitto d'onore», come se l'anziano parroco avesse insidiato la sorella dell'omicida (ma la stessa donna smentì ogni sospetto)... L'uccisore tra l'altro conosceva benissimo la vittima, a cui spesso serviva messa, e una delle prime ad accorrere sul luogo del delitto fu la madre dell'assassino, che abitava lì presso; a lei il prete confermò di essere stato colpito da suo figlio, al quale il sacerdote proprio pochi giorni prima aveva donato una pezza di stoffa per cucirsi un paio di calzoni. Un atteggiamento generoso che Don Gennaro teneva con molti altri contadini, cui concedeva prestiti per ricomprare il bestiame rubato anche dai militanti della «repubblica di Caulonia»: infatti, il giorno del funerale una folla di quei pastori si presentò in piazza con decine di armenti da «restituire» alla famiglia del parroco ucciso.
La repressione giunse un mese più tardi, il 12 aprile, quando 1000 carabinieri e 200 poliziotti in assetto di guerra circondarono Caulonia; al processo che ne seguì gli imputati erano addirittura 400, ma i condannati furono solo 3.
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