giovedì, marzo 01, 2012

I Leoni della San Marco nell' assedio di Cèzembre in Normandia.

Quegli irriducibili nell’isola-bunker che non volevano cedere agli Alleati

di Gianluca Di Feo Corriere della Sera, 30 Maggio 2004


Quella mattina sulle coste della Normandia c’erano anche loro. Una piccola armata di italiani che per scelta, per convenienza o per obbligo era schierata dalla parte dei tedeschi. Migliaia di uomini impegnati lungo il «vallo atlantico»: ventimila secondo alcune stime, addirittura 40 mila secondo altre. Basta guardare alle spiagge del primo sbarco: all’alba del D-Day negli scacchieri di Omaha, Utah, Juno e Gold c’erano almeno cinque unità italiane in armi. Invece gli alpini della «Trento», costretti a lavorare per l’organizzazione Todt, approfittarono del caos e fuggirono verso casa. «E’ stato un inferno - ricorda Antonio Cipriani -. A mezzanotte sembrava di essere in pieno giorno tante le bombe che cadevano: i morti non si contavano. Nella confusione dell’attacco, io e tre miei compaesani siano scappati». Durante i raid si diedero alla macchia anche i camionisti piemontesi che per uscire dal lager avevano accettato di servire con la colonna mobile della 716ma divisione. Invece i mitraglieri aggregati al 736mo granatieri, quasi tutti bersaglieri, tentarono un disperato contrattacco. E gli artiglieri del 1261mo restarono ai pezzi, sparando contro la più grande flotta di tutti i tempi. Nel settore Utah, in un bosco dietro al forte di Marcouf, la quarta batteria - personale italiano e comando tedesco - distrusse un cacciatorpediniere: «Centrammo un colpo dopo l’altro - ha scritto il colonnello Triepel -. Uno spezzò il timone, perché la nave cominciò a sbandare. Poi sprofondò di prua».

STORIA DIMENTICATA - La storia di questi soldati si è dissolta, persa nel grande caos seguito all’armistizio. Esiste un’unica traccia certa: gli archivi della Feldpost, il servizio postale germanico che permettono di ricostruire movimenti e composizione delle forze armate hitleriane. Uno storico - Gianni Giannoccolo - è riuscito a selezionare un elenco di unità tedesche composte anche da militari italiani. Evidenzia almeno 60 reparti attivi sul fronte atlantico. Berlino dopo l’8 settembre aveva inquadrato gli «alleati» in piccoli nuclei, compagnie o al massimo battaglioni. I compiti erano scelti in base all’affidabilità. In prima linea chi si era immediatamente mostrato fedele al Reich: in Normandia armavano ben 24 batterie di artiglieria pesante. Chi invece aveva «aderito» alla Rsi dopo la cattura, andava nella contraerea o nei trasporti. I prigionieri leali ai Savoia invece finivano nei cantieri della Todt: furono loro a costruire la fortezza di Longues sur Mer - oggi trasformata in museo - che tenne sotto tiro Omaha e Gold. Parecchi autisti italiani guidavano le colonne dei rifornimenti. Persino le tre divisioni corazzate delle SS mandate da Hitler per «ricacciare in mare» l’armata anglobritannica avevano dei contingenti di volontari di Salò. E in tanti non tornarono. Tra il 19 e il 27 giugno a Montebourg tre reggimenti di artiglieria (1261, 1262 e 1709) furono distrutti nel tentativo di fermare i tank inglesi: un terzo dei soldati erano italiani.

IL COMANDO DI BETASOM - Dopo l’8 settembre l’unica eccezione alla dispersione dei «collaborazionisti» riguardò la base sottomarini di Bordeaux, in codice Betasom. Diecimila uomini guidati da Enzo Grossi - con una discussa fama di asso dei sommergibili - che si erano guadagnati la stima dell’ammiraglio Doenitz. Gli fu concesso di arruolare altri volontari: 4.000 figli di immigrati, giovani cresciuti in Francia che del fascismo avevano conosciuto solo la propaganda. Già dall’autunno del ’43 crearono la «Divisione atlantica» e il battaglione «Longobardo» di fanteria di marina. Le foto mostrano file di ragazzi con divise improvvisate e sguardi poco marziali. Ma nelle settimane successive allo sbarco anche la «Divisione atlantica» - come ha ricostruito Marino Perissinotto su «Storia e Battaglie» - venne smembrata.

L’ISOLA DI FUOCO - La battaglia più sanguinosa fu combattuta a Cézembre, l’isoletta-bunker che «copriva le spalle» alla cittadella di St. Malo: una Maginot in miniatura, con tre livelli di sotterranei. Lunga 500 metri e larga poco più di 250, ha conquistato il terribile primato di «terra più bombardata della storia»: in un mese 120 mila tonnellate di ordigni. Nonostante questo inferno, l’isola difesa da tedeschi e marinai di Salò ha continuato a fare fuoco sugli americani.
L’assedio cominciò ai primi di agosto: navi, obici semoventi, bombardieri la bersagliano senza sosta. Il 17 agosto Saint Malo alza la bandiera bianca, ma l’isola resiste ancora. È a questo punto che gli alleati decidono di usare un’arma mai sperimentata prima: il napalm. Molti italiani sono terrorizzati: il 20 agosto tre marò disertano e raggiungono la costa a nuoto. Descrivono agli americani le condizioni della guarnigione: nei rifugi ci sono 277 feriti, tra cui 17 repubblichini, manca l’acqua potabile e scarseggia il cibo. Eppure, il 28 i bunker rispondono con l’artiglieria a una nuova richiesta di cedere le armi. Dicono che Patton fosse infuriato: il generale ordina di spazzare via Cézembre. Due giorni dopo, l’apocalisse: 265 bombardieri sganciano migliaia di bombe perforanti e barili di napalm. Dall’isola si leva una nuvola di fuoco, simile al fungo di un’atomica: il calore piega persino le canne dei cannoni, cancella ogni forma di vita dalla superficie. Il 1° settembre l’ammiragliato germanico dà il permesso di resa al presidio. Dalle caverne escono anche 69 italiani: «Camminavano a testa bassa come gente che viene dall’altro mondo, parevano degli zombie». Appena arrivati sulla spiaggia, gli americani rendono l’onore delle armi a questi «uomini che sembravano delle ombre». Molti dei loro commilitoni rimasero nei cunicoli devastati. E mai più esplorati: ancora oggi Cézembre è «una terra desolata», vietata a tutti per la presenza di mine e ordigni inesplosi.
In uno dei fortini crollati, sotto una croce incisa nel cemento - riporta uno speleologo francese - c’è una scritta spezzata da una granata: «Giovanni F...». Poi un numero e la parola «Nap...». Forse l’ultimo saluto a uno di quei marinai senza nome.

Nessun commento: